martedì 19 luglio 2011

Odore di legno


Santo era ancora sconvolto per la toccata e fuga avuta con la bella violinista bionda. Ancora non si capacitava di cosa aveva messo a segno. Una bambolina dei piani alti. Eppure era salita nella sua mansarda. Aveva perso tutti i segni di potere che portava addosso e poi nuda aveva arretrato sotto il suo insistente incalzare fino al muro e poi fino al vecchio divano.
Aveva la pelle profumata di talco e di seta. E di qualcos'altro. Qualcosa che non aveva capito bene. Che lo aveva colpito in pieno. Non si ricordava il nome.
-Bellissima- sussurrò piano.
-Come?- il barista lo guardò sospettoso
-Nulla. Un caffè corretto grappa-

Il gusto amaro e forte che andava giù veloce. Santo aveva mani forti e ispessite dal lavoro. Un restauratore attento, che trattava il legno con cura, che domava in esso i segni del tempo, dell'usura, che sapeva il suo mestiere.
Aveva una bottega nel carrugio dove trafficava attorno a pezzi di minore o maggiore valore; dove levigava, stringeva, toccava assi di legno, curve di rovere, o di impiallacciato.
Leila aveva portato lì giorni prima il suo violino a far sistemare. Non da un liutaio esperto quindi, ma da Santo, il restauratore. E Santo non l'aveva delusa.

Pagato il caffè uscì dal bar ancora sovrappensiero, facendo a memoria la strada fatta già innumerevoli volte, senza porvi attenzione. Infilò nella toppa le chiavi per aprire il laboratorio ed entrò. Fare il restauratore era un lavoro d'arte e di fatica insieme. Santo si avviò verso un vecchio armadio mangiato dai tarli per trattarlo, lucidarlo, ricostruire le parti ormai distrutte. Era chino su uno di quei cassetti quando Leila entrò per la terza volta nella sua vita.
-Ciao.-
Santo trasalì. Non pensava che avrebbe più sentito quella voce. E del resto era da quel pomeriggio, da quando lei se ne era andata che non sapeva togliersi quell'odore di dosso.
-Ciao- rispose meccanicamente Santo. Poi la guardò meglio -ti sei cambiata.-
-Sì-.
-Stai bene sai.-
Era stranito. La violinista era lì. Non erano passate due ore da quando era stata da lui e ora era lì. E non sapeva neanche darle un nome.
Doveva essere un'avventura e lei una poco di buono. Eppure era tornata.
Decise di essere sgarbato per non rischiare di farci la figura del fesso.
-Che vuoi ancora?-
Leila chiuse gli occhi per un attimo. Non che si aspettasse una proposta di matrimonio certo ma neanche quel tono di voce. -Non sembravi quel tipo di persona prima.- gli disse quieta.
-Che tipo?-
-Il tipo stronzo.- chiuse gli occhi ancora, li riaprì. Lo guardò negli occhi per capire. Lui faceva la faccia di servizio, da duro. Leila si girò per andarsene. -Allora ciao- disse, e uscì.
Si buttò a capofitto in mezzo alla gente in strada camminando veloce, per quelle strade strette da città di pescatore dove era facile perdersi per chiunque non avesse imparato a conoscerle muovendo lì i suoi primi passi. Non aveva intenzione di tornare a casa. L'unica persona che conosceva l'aveva appena rifiutata. Erano le ultime luci del pomeriggio. Non aveva un tetto sotto cui dormire e se fosse andata in un qualunque albergo avrebbero riconosciuto i suoi documenti.
Bello schifo.

Non erano passati cinque minuti che Santo si era pentito. Aveva passato due ore a cercare di ricordare e dimenticare un profumo di donna e quando lei era stata lì l'aveva mandata via.

Uscì di corsa dalla porta ma non sapeva che strada avesse preso.

-Non sarà lontana, non conosce queste strade-
Si buttò fuori a cercarla. Ma la cercò per ore, tre ore per la precisione. Senza trovarla. Per fortuna che le serate estive sono luminose. Stanco di cercare si sedette al tavolo di un locale per mangiare un boccone.

Leila camminò ancora mentre pensava alle possibili soluzioni. Dalla fuga in un capoluogo, agli spettacoli di burlesque, dal cercare lavoro da cameriera, al suonare a cappello lungo le città del litorale. Ma rimaneva il problema del dove dormire, almeno le prime notti. Stanca di camminare si sedette al tavolo di un locale.
Ordinò una birra e un piatto di acciughe saltate. Non aveva mai fumato, ma quello sarebbe stato un momento ideale per farlo. La sera iniziava a scurirsi.
Ribadisco: bello schifo.

Santo riconobbe l'odore della sua pelle. Due tavoli più in là, solo due tavoli. Si alzo di scatto le arrivò alle spalle, poso la mano sulla sua spalla.
Leila trasalì. Si voltò. Gli occhi marroni di lei reincontrarono il verde profondo degli occhi di Santo.

Santo non si scusò.
-Posso sedermi qua?- le chiese
-Hai una sigaretta?- rispose Leila.


Santo si sedette.

domenica 17 luglio 2011

Incipit - A piedi nudi


A piedi nudi

Leila camminava leggera per strada. I piedi volavano leggeri come i piedi di una bimba sull'erba umida di rugiada, incuranti dei tacchi e del cemento aspro della strada. Leila sui tacchi ci sapeva camminare. Aveva imparato da ragazzina, come si conveniva a chi doveva atteggiarsi a giovane donna. Aveva imparato molte altre cose, Leila: sapeva mangiare con la schiena diritta, sapeva tenere correttamente la tazza , il bicchiere e ogni posata, sapeva mangiare con disinvoltura le aragoste e sapeva bere vini raffinati apprezzandone l'odore e il sapore. Sapeva commentare in modo appropriato spettacoli di teatro e interventi critici dei più disparati. Quante cose sapeva fare lei. Quante cose era stata educata a fare Leila.

Ma lei non sapeva davvero cosa voleva fare ora. Camminava leggera sui suoi tacchi in una strada che puzzava di piscio e di pesce. Con un abitino inadeguato al luogo. Un abitino troppo elegante e troppo costoso per quel vicolo. Panni di cui Leila si sarebbe voluta disfare per tornare a essere quella che non era mai stata. Solo se stessa.

Leila si tolse le scarpe in quel vicolo. Coi piedi che toccavano il ruvido e l'umido di quel carrugio stretto si mise a camminare con meno disinvoltura di prima. Attenta a evitare i cocci di vetro, le zone più umide, le macchie meno nobili. Ora Leila camminava circospetta e non pareva più erba fresca di rugiada a correrle sotto i piedi. Ora sentiva il cemento aspro. Adesso lo sentiva anche lei.

Con le scarpe in mano si fermò a guardarsi attorno. Era quasi il tramonto e dietro all'ennesima scaletta stretta si intravedeva il mare. Camminò fino alla strada principale, la attraversò e percorse il primo tratto di lungomare. Era una zona trafficata da gente affaccendata: chi tornava dal mare chi cercava un po' di vita serale, chi non cercava nulla, chi cercava se stesso. Come lei.

Camminare in mezzo alla gente e non sentirne gli sguardi. Essere trasparente. Ognuno occupato a fare le proprie cose e nessuno che ti osservi.

Leila trovò una discesa per il mare. La percorse: una trentina di gradini di pietra che la portarono in spiaggia.
Era una spiaggia di sassi. Pietre grosse e ghiaia. Ancora più aspri della strada, duri. I piedi le facevano davvero male ora.
Posò le scarpe sulla spiaggia e con passi indelicati arrivò goffamente all'acqua per bagnarli. Si sedette sulle pietre per non doversi appoggiare con tutto il suo peso su quei sassi aguzzi e così, coi piedi in acqua, si mise a pensare.
A casa l'avrebbero presto attesa per cena con un formale rimprovero per le intemperanze compiute. Se solo avesse chinato la testa e detto”perdono” la cosa sarebbe certamente finita lì. Nessuno le avrebbe chiesto dove era stata, con chi, cosa aveva fatto, né tantomeno il perchè. L'indomani l'avrebbero fatta ritirare dal Conservatorio cui era iscritta e sarebbe tornata alle sue lezioni private di greco e galateo, nell'attesa di divenire la moglie adeguata di un illustre partito.

Ma Leila aveva ancora le gambe tiepide. Da poco aveva sentito i suoi piedi contrarsi e diventare freddi. Mentre il sangue correva caldo e ritmico poco sotto la pancia. Leila sapeva che c'era qualcosa d'altro là fuori. E anche se la terra era dura lei ci voleva restare.

Si alzò, e raggiunse la scala nuovamente. In una bottega di abiti di seconda mano vendette le sue scarpettine Vuitton e il suo abito di boutique. Ne ebbe in cambio un abitino di jeans e un paio di vecchie ballerine nere. La sua nuova divisa. Si sciolse i capelli.
Quella notte non sarebbe tornata a casa.